Ci troviamo di fronte ad un nuovo annoso caso in cui l’Agenzia delle Entrate ha agito per il recupero del credito in assenza di una necessaria verifica dei presupposti di legge.

Ed infatti, il Giudice Tributario ha recentemente condannato l’Agenzia delle Entrate ritenendo del tutto illegittimo il tentativo di recupero del credito preteso.

In sintesi l’Agenzia delle Entrate e Riscossione (ex Equitalia Gerit) nell’anno 2022 ha emesso una cartella di pagamento per l’importo di oltre 50.000 euro per imposte e tasse asseritamente dovute dal contribuente – nostro assistito.

Avverso tale atto di riscossione è stato interposto ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, eccependo in quella sede l’illegittimità dell’atto impositivo, posto che, sulla base di quanto riferito, di solare evidenza emergeva l’assenza di responsabilità da parte del contribuente.

La corte di Roma adita, con sentenza n. 9423 del 2023, depositata lo scorso 12 luglio, ha accolto il ricorso presentato avverso la relativa cartella di pagamento, condannando peraltro l’Agenzia delle Entrate alla refusione delle spese processuali.

In particolare il giudice tributario ha accolto la tesi difensiva evidenziando come la pretesa erariale, nel caso di specie, non fosse stata affatto preceduta dall’Avviso di accertamento previsto per legge, precludendo in tal modo al diretto interessato il proprio legittimo diritto di difesa.

In altre parole desta stupore come l’ente di riscossione all’uopo incaricato abbia ritenuto di agire per il recupero – peraltro di una somma ingente – senza preoccuparsi di verificare se effettivamente il contribuente fosse stato reso edotto dall’Agenzia delle Entrate dell’accertamento tributario del quale direttamente destinatario, dunque se fosse stato in altre parole effettivamente consapevole dell’avvio della relativa procedura nei suoi confronti.

Non è purtroppo questa la prima volta in cui come studio ci capita di assistere al recupero di somme – anche ingenti – nei confronti di contribuenti costretti a ricorrere in giudizio precludendo loro la possibilità/diritto di eccepire le proprie ragioni in una fase precontenziosa.

D’altro canto non è affatto concepibile un sistema in cui sia astrattamente tollerabile la possibilità che la pretesa erariale possa di fatto tradursi in una sorta di atto a “sorpresa” per il contribuente; una simile imposizione esige per legge che debba sempre e comunque – senza eccezioni di sorta – essere preceduta dalla formale notifica di tale avvertimento, atto formale attraverso il quale l’ente impositore ha il preciso dovere di rappresentare al contribuente le ragioni sulla base delle quali ritiene di la sussistenza di violazioni di natura tributaria; avviso questo si converrà più in generale diretta espressione di un sempre più avvertito concetto di legalità posto che solo in tal modo potrebbe essere assicurata, come del resto previsto dal nostro legislatore, la possibilità (rectius l’opportunità) di instaurare un quanto mai legittimo oltreché doveroso contraddittorio sul punto.

Nel caso in questione l’Agenzia delle Entrate, ben conscia dell’assenza di una notifica in tal senso, ha comunque dato incarico al proprio ente di riscossione di procedere ugualmente al recupero di tributi considerati non corrisposti.

Né peraltro l’ente di riscossione, da par suo, ha ravvisato alcuna ragione di opportunità che suggerisse di sospendere precauzionalmente – ancorché prudenzialmente – l’esecuzione (nei confronti del contribuente) di una procedura che ab origine si sapeva essere affetta da evidenti vizi di legittimità.

Sul punto, sia consentito rilevare, come del tutto consolidato debba ritenersi l’orientamento giurisprudenziale ribadito a più riprese dai numerosi arresti giurisprudenziali che in casi analoghi hanno statuito che non può dirsi condivisibile l’assunto prospettato dalla difesa dell’Agenzia delle Entrate; la mera affermazione – di avere cioè dato conto di aver debitamente notificato l’avviso di accertamento non è idonea a ritenere assolto l’onere probatorio del quale gravato l’ente, posto che non documentando attraverso la relata di notifica tale adempimento, verrebbe inevitabilmente meno all’onere probatorio disposto dall’art. 2697 del nostro c.c..

La mancanza dì prova dell’avvenuta notifica, imputabile all’Ufficio, comporta pertanto l’inesistenza della stessa, per cui l’iscrizione a ruolo impugnata va annullata, difettando dell’atto principale idoneo a giustificarne la sua emissione

Per questi motivi, come premesso, il Giudice Tributario di prime cure non ha potuto far altro, anche in questo caso che prendere atto dell’illegittimità dell’operato dell’ente erariale e per l’effetto disporre l’annullamento della cartella di pagamento condannando oltretutto l’ente erariale alla refusione delle relative spese di giudizio ammontanti a diverse migliaia di euro; spese, che è bene evidenziare, finiranno inesorabilmente per gravare sulla platea dei contribuenti con l’evidente paradosso, affatto non trascurabile se rapportato alla mole di giudizi in cui risultata soccombente, che non soltanto l’Agenzia delle Entrate non è stato in grado di procedere al recupero delle somme ritenute dovute, ma così agendo ha addirittura provocato un danno erariale in termini di perdita patrimoniale che tale rimborso delle spese legali evidentemente rappresenta per le casse dello Stato.

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